Sergio Lari
per Paolo Borsellino

Ventinove anni dopo la strage del 19 luglio 1992

Sergio Lari, già Procuratore Generale presso la Corte d’Appello di Caltanissetta

Desidero innanzitutto ringraziare la A.N.M. per avermi offerto l’opportunità di ritornare in questo Palazzo di Giustizia, dove ho trascorso molti anni della mia vita professionale, per ricordare Paolo Borsellino insieme ad una platea così qualificata di colleghi ed amici.
Mi sembra particolarmente appropriata la iniziativa di commemorare Paolo Borsellino in questo Palazzo di giustizia perché in questa sede giudiziaria egli ha esercitato le funzioni di giudice istruttore e successivamente di procuratore aggiunto per complessivi 12 anni, dando vita, insieme a Giovanni Falcone e agli altri magistrati del pool antimafia dell’ufficio istruzione, alla quella nuova stagione dell’antimafia che avrebbe finalmente portato se non alla definitiva sconfitta di cosa nostra quanto meno al suo drastico e spero irreversibile ridimensionamento.
Naturalmente per ricostruire le vicende umane e professionali di Paolo Borsellino e rendere in maniera adeguata la grandezza della sua figura occorrerebbe molto più tempo di quello a mia disposizione, pertanto mi scuso fin d’ora se il mio intervento potrà apparirvi non del tutto esauriente.
Siamo qui riuniti perché, pur essendo trascorsi ventinove anni dalla “stagione delle stragi”, sussiste l’obbligo, innanzitutto morale, di rinnovare, attraverso l’esercizio della memoria, il perenne debito di gratitudine nei confronti di Paolo Borsellino e degli agenti della Polizia addetti alla sua scorta (Agostino Catalano, Emanuela Loi, Claudio Tranchina, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina) i quali, da leali servitori dello Stato, hanno perso la vita soltanto per avere fatto il proprio dovere fino in fondo.
Questo debito di gratitudine si colora, poi, di particolare intensità se si considera che l’esercizio delle funzioni giurisdizionali da parte di Paolo Borsellino fu accompagnato dalla piena consapevolezza dei rischi cui andava incontro come è dimostrato non soltanto dalle testimonianze di familiari ed amici, tra cui anche il suo padre confessore Cesare Rattoballi, ma anche dalle dichiarazioni da lui stesso rilasciate a Lamberto Sposini il 28 giugno del 1992 in occasione di una intervista.
In quella occasione, il giornalista gli chiese “se lui si sentisse un sopravvissuto” e Paolo Borsellino rispose facendo proprie le parole pronunciate da Ninni Cassarà (ucciso a Palermo il 6 agosto 1985) mentre si stavano recando sul luogo dove era stato ucciso il dr. Montana “convinciamoci che siamo dei cadaveri che camminano”.
Tuttavia Paolo Borsellino aggiunse, ritengo anche per evitare che si pensasse che egli avesse gettato la spugna: “la sensazione di essere un sopravvissuto e di trovarmi in estremo pericolo è una sensazione che non si disgiunge dal fatto che io credo ancora profondamente nel lavoro che faccio, so che è necessario che lo faccia, so che è necessario che lo facciano tanti altri insieme a me. E so anche che tutti noi abbiamo il dovere morale di continuarlo a fare senza lasciarci condizionare dalla sensazione o che, financo vorrei dire, dalla certezza che tutto questo potrà costarci caro.”
Che Paolo Borsellino avesse la consapevolezza di andare incontro a morte certa è, altresì, dimostrato dalle parole pronunciate il 23 giugno 1992 in commemorazione di Giovanni Falcone e delle altre vittime della strage del 23 maggio quando affermò, chiaramente rivolgendosi anche a sé stesso, che ” Giovanni Falcone lavorava con la perfetta coscienza che la forza del male, la mafia lo avrebbe un giorno ucciso e che aveva accettato questo destino per amore verso la terra che lo ha generato e per la sua gente…. Sono morti per tutti noi, per gli ingiusti, abbiamo un grande debito verso di loro e dobbiamo pagarlo continuando la loro opera… dimostrando a noi stessi e al mondo che Falcone è vivo “.
Queste parole, che potremmo dedicare senza spostare una sola virgola allo stesso Borsellino, confermano che dopo la morte di Giovanni Falcone, Paolo Borsellino aveva chiaramente compreso che lo Stato rischiava di cadere a pezzi di fronte allo strapotere mafioso ed era consapevole di avere il dovere di andare avanti a tutti i costi.
La sua determinazione e il suo profondissimo senso dello Stato rafforzarono, ammesso che ve ne fosse bisogno, la decisione di cosa nostra di eliminarlo in tutta fretta con la efferatezza che tutti conosciamo, mentre lo Stato che avrebbe dovuto proteggerlo non riuscì neppure a predisporre una zona rimozione sotto la abitazione della madre che Borsellino frequentava con regolarità.
Come Giovanni Falcone, Paolo Borsellino è andato incontro al suo destino con consapevolezza e senza tentennamenti e pertanto, a mio modo di vedere, può essere definito un eroe dei nostri tempi perché ha subito la stessa sorte che il destino riservò ad Ettore sotto le mura di Troia dove affrontò consapevolmente la morte per salvare la sua gente e la sua patria lottando contro Achille, un nemico invincibile.
La consapevolezza della grande statura umana, morale e professionale di Paolo Borsellino è un sentimento che alberga nel cuore e nella mente di tutti noi e in particolare degli appartenenti alla mia generazione che, per ragioni legate alla
professione esercitata, hanno avuto l’opportunità, di conoscerlo divenendo testimoni privilegiati delle sue vicende umane e professionali.


Avendo vissuto questa esperienza, ed essendomi successivamente occupato delle nuove indagini e dei conseguenti processi sulle stragi di Capaci e via d’Amelio, so bene che se gli artefici della uccisione di Falcone e Borsellino furono gli uomini di “cosa nostra”, che identificavano in essi i due magistrati simbolo della lotta alla mafia responsabili dell’esito del maxiprocesso, è anche vero che la loro vita professionale, fu segnata da una quantità impressionante di delegittimazioni in alcuni casi provenienti perfino dal mondo delle Istituzioni cui essi stessi appartenevano.
Si trattava, infatti, di magistrati “scomodi” che proponevano un modello di giudice diverso da quello di una parte della magistratura dell’epoca poiché portavano avanti le investigazioni e l’azione penale con rigore e senza pregiudizi culturali ed ideologici, anche nell’area grigia della connivenza tra mafia e politica e nel mondo della economia e della finanza.
Con il loro attivismo, spesso definito dai loro detrattori “protagonismo”, Falcone e Borsellino, si contrapponevano a quella parte della magistratura che, essendo subordinata a logiche di conservazione del sistema sociale ed economico-politico, aveva una visione del ruolo del giudice di tipo burocratico.
Non è dunque un caso, ma anche il frutto dello scontro di due diversi modi di intendere l’esercizio del controllo di legalità, se Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, sia pure per diverse motivazioni ed in tempi diversi, siano finiti sotto inchiesta da parte del Consiglio Superiore della Magistratura.
In particolare Paolo Borsellino fu sottoposto a procedimento disciplinare quando, prendendo spunto dalla mancata nomina di Giovanni Falcone a capo dell’Ufficio istruzione di Palermo, denunciò in una intervista rilasciata il 20 luglio 1988 al giornalista Attilio Bolzoni il rischio dello smantellamento del “pool antimafia”.
Per queste dichiarazioni, pur se ispirate da profondo senso dello Stato, Paolo Borsellino, si trovò isolato perfino dentro la magistratura proprio quando avrebbe avuto bisogno del massimo sostegno da parte dei colleghi e della società civile.
E come non ricordare, in questa rievocazione dell’isolamento di cui fu vittima Paolo Borsellino, la polemica seguita all’articolo di Leonardo Sciascia in cui si adombrava che l’incarico di Procuratore della Repubblica di Marsala conferitogli nel 1986 fosse stato un premio alla sua carriera di “professionista dell’antimafia”.

Come è noto, soltanto dopo qualche tempo Sciascia e Borsellino ebbero un chiarimento e si riappacificarono avendo il noto scrittore compreso l’errore di valutazione commesso.
Ed ancora come dimenticare che il procuratore capo di Palermo arrivò al punto di tenerlo all’oscuro di una informativa che riferiva di progetti di attentato che lo riguardavano, così dimostrando un palese disinteresse nei suoi confronti e dunque delegittimandolo all’interno dell’ufficio.
Potrei citare altri episodi, a dir poco inquietanti, che testimoniano dello stato di isolamento di Paolo Borsellino alcuni dei quali sono stati riferiti dalla moglie Agnese e altri da alcuni suoi colleghi, ma mi fermo qui per ragioni di sintesi.
Ciò che mi preme evidenziare, è che sarebbe semplicistico e non corrispondente al reale svolgersi degli eventi storici che hanno caratterizzato la vita di Paolo Borsellino, ridurre la testimonianza sugli anni che precedettero la sua tragica scomparsa al conflitto con la mafia sanguinaria dei corleonesi.
Della complessità delle vicende che hanno segnato la vita di Paolo Borsellino e della correlativa difficoltà di accertamento a distanza di oltre sedici anni da quel tragico 19 luglio del 92 ho potuto rendermi conto quando, insieme ai magistrati della D.D.A. di Caltanissetta, mi sono dovuto cimentare in nuove e complesse indagini volte a ricostruire giudiziariamente la strage di Via D’Amelio.
Correva l’anno 2008 quando Gaspare Spatuzza, uomo d’onore di cosa nostra, già reggente del mandamento mafioso di Brancaccio e fedelissimo dei fratelli Giuseppe e Filippo Graviano decise di confessare di avere partecipato a tutta la campagna stragista avviata da “cosa nostra” il 23 maggio ed il 19 luglio 1992 con le stragi di Capaci e via D’Amelio, proseguita con le stragi del 1993 sul continente e terminata il 27 gennaio 1994, a Roma, con il fallito attentato all’Olimpico.
Con le sue dichiarazioni lo Spatuzza, oltre ad effettuare inedite chiamate in correità, scagionò tutte le persone appartenenti al mandamento di Santa Maria di Gesù che erano state condannate nei processi Borsellino 1 e Borsellino bis.
La portata senza precedenti delle sue propalazioni rese necessaria una rigorosa e minuziosa attività di riscontro che è stata successivamente estesa alle concordanti dichiarazioni rese nel 2011 dal neo collaboratore di giustizia Fabio Tranchina, già uomo di fiducia e autista di Giuseppe Graviano.
Le indagini, che hanno trovato avallo nella successiva verifica dibattimentale, hanno consentito alla DDA di Caltanissetta di dimostrare il pregresso mendacio dei quattro collaboratori di giustizia su cui si erano basate le sentenze emesse a conclusione dei processi Borsellino 1 e bis (Salvatore Candura, Vincenzo Scarantino, Francesco Andriotta, Calogero Pulci) .
E’ stato, in particolare, necessario procedere su un doppio binario dovendo essere individuati gli errori giudiziari commessi e scagionare le persone ingiustamente condannate che alla fine sono risultate complessivamente 11 di cui sette condannate all’ergastolo (tutti costoro sono stati definitivamente assolti con sentenza definitiva della Corte d’Appello di Catania del 13.07.2017) e trovare le prove a carico dei nuovi veri responsabili della strage.
Questi ultimi sono stati individuati complessivamente in nove persone di cui cinque mai prima sospettate di avere partecipato all’eccidio che sono state rinviate a giudizio e condannate (con eccezione di Salvatore Vitale deceduto per cause naturali nel corso del processo).
Nei confronti delle altre quattro, tra cui Giuseppe Graviano, non si è potuto procedere soltanto perché già condannate con sentenza definitiva, in qualità di mandanti, a conclusione del processo Borsellino ter (celebratosi a Catania nel 2006) unitamente a Salvatore Riina ed agli capimandamento della commissione provinciale di cosa nostra palermitana.
I processi scaturiti dalle nuove indagini svolte dal mio Ufficio, meglio conosciuti come i processi del Borsellino quater, sono stati due : uno celebrato con il rito abbreviato già definito con sentenza passata in giudicato e l’altro a carico degli imputati che hanno optato per il rito ordinario che dopo la sentenza emessa dalla Corte d’Assise d’appello di Caltanissetta nel 2019 attende di essere definito in Cassazione dove verrà trattato il prossimo 5 ottobre.
Tutti gli imputati sono stati condannati ad eccezione di due imputati di calunnia, Salvatore Candura e Vincenzo Scarantino, che hanno beneficiato della prescrizione.
In occasione di questo anniversario, mi è sembrato doveroso rammentare sinteticamente l’impegno profuso dalla magistratura per consentire l’accertamento della verità sulla strage del 19 luglio 1992 perché ciò dimostra che lo Stato italiano, malgrado il tempo trascorso, non ha dimenticato i suoi caduti.
Occorre, tuttavia, evidenziare che l’attività di ricerca della verità è tuttora in corso presso la competente autorità giudiziaria nissena sia in fase di indagini sia in fase processuale per fare luce su alcuni interrogativi irrisolti che riguardano l’accertato depistaggio e il possibile ruolo di soggetti esterni a cosa nostra nella fase deliberativa ed esecutiva della strage del 19 luglio.
Questo costante impegno giudiziario costituisce, a mio modo di vedere, il migliore omaggio possibile alla memoria di Paolo Borsellino e dei valorosi agenti della scorta della Polizia di Stato che hanno condiviso la sua sorte.
Per quanto riguarda il depistaggio, mi sembra opportuno evidenziare che la patologica conclusione dei processi Borsellino 1 e bis con la condanna di persone innocenti e lo stravolgimento della verità sui responsabili della strage del 19 luglio, dimostra che non ha funzionato il sistema investigativo e giudiziario nel suo complesso, malgrado i pesi ed i contrappesi e le numerose garanzie processuali di cui è dotato il nostro ordinamento giuridico.
A tal proposito, nelle due sentenze emesse a conclusione del processo Borsellino quater in primo e secondo grado viene riconosciuto che, se è vero che le finalità del depistaggio non sono state accertate sulla base di prove certe, è anche vero che, sulla base di alcuni concreti elementi indiziari, può essere ragionevolmente accreditata l’ipotesi di “una fonte confidenziale mai resa ostensibile cui gli inquirenti hanno cercato di dare dignità di prova operando una serie di forzature”.
A ben vedere, quali che siano state le motivazioni di siffatto depistaggio, si tratta di una vicenda che, per la sua gravità, non può essere rimossa dalla memoria collettiva di noi magistrati come uno dei tanti errori giudiziari che purtroppo si verificano nella amministrazione della giustizia.
Quanto accaduto con i processi Borsellino 1 e bis, deve indurre noi magistrati a riflettere sulla necessità che le indagini preliminari e i processi che ne conseguono siano sempre improntati a criteri di assoluto rigore nell’analisi degli elementi di prova, senza farsi condizionare dal logiche di tipo emergenziale, da convinzioni preconcette o ancora dalla incapacità di cambiare idea quando gli accertamenti processuali lo impongono sulla base di una analisi obiettiva e scevra da condizionamenti di sorta.
Credo di potere affermare che Paolo Borsellino sarebbe pienamente d’accordo con questa affermazione sé è vero che in un discorso tenuto agli studenti di Bassano del Grappa il 26 gennaio 1989, pur mettendo in rilievo l’importanza del ruolo dei pentiti, evidenziò il rischio dell’uso poco professionale di tale strumento di ricerca della prova, affermando : “ il pentito non deve essere la scorciatoia, il pentito deve dare la chiave di lettura di certe cose, il pentito deve dare l’indirizzo e poi il giudice deve andarsi a cercare, a riscontrare quelli che sono appunto i riscontri obiettivi alle dichiarazioni dei pentiti”.
Dobbiamo fare tesoro di questo insegnamento, con la consapevolezza del fatto che la magistratura italiana, dopo decenni di indagini e processi nei confronti della criminalità organizzata di stampo mafioso, è ormai in possesso di tutti gli strumenti culturali e conoscitivi per valutare la attendibilità dei collaboratori di giustizia come recentemente dimostrato, giusto per fare un esempio, dal recente comunicato stampa della Procura distrettuale antimafia di Caltanissetta relativo alle sorprendenti, per non dire fantasiose, dichiarazioni rese e pubblicizzate dal già collaboratore di giustizia Maurizio Avola in merito alla sua presunta partecipazione alla esecuzione della strage di Via D’Amelio.
Mi avvio alla conclusione, accennando ad altri due interrogativi ancora irrisolti sul piano probatorio, nel difficile accertamento di tutta la verità sulla strage del 19 luglio.
Un interrogativo riguarda le ragioni per cui cosa nostra ha deciso la accelerazione della esecuzione della strage di Via D’Amelio eseguendola ad appena 57 giorni di distanza da quella di Capaci e l’altro il sospetto che in questo processo decisionale possano essere intervenuti soggetti esterni alla organizzazione mafiosa.
I giudici del processo Borsellino quater hanno ipotizzato che la accelerazione della esecuzione della strage deliberata da cosa nostra palermitana nel dicembre del 1991 possa essere dipesa dal particolare interessamento di Paolo Borsellino per la prosecuzione delle indagini in materia di mafia e appalti oltre che dal timore dell’organizzazione mafiosa che Borsellino potesse divenire capo della D.N.A. ed hanno perfino ipotizzato una spinta proveniente dalla mafia americana che mal tollerava le indagini di Borsellino sul traffico internazionale di stupefacenti.
I medesimi giudici, valorizzando le dichiarazioni rese dal collaboratore di giustizia Antonino Giuffrè, hanno affermato categoricamente che la strage è stata un delitto di mafia deliberato ed eseguito per finalità di vendetta e cautela preventiva, ma al contempo non hanno escluso che, pur mancando prove certe, “possano esservi stati soggetti esterni a cosa nostra o gruppi di potere interessati alla eliminazione di Borsellino”.
Nella medesima sentenza i giudici hanno, altresì, evidenziato l’esistenza di buchi neri nelle attività di investigazione cui non è stato possibile dare risposte.
Hanno, in particolare, fatto riferimento: alla vicenda della scomparsa della agenda rossa di Paolo Borsellino, alla presenza di sconosciuti sul luogo e nella immediatezza della strage, alla mancata individuazione dello sconosciuto visto da Spatuzza nel garage di Via Villa Sevaglios al momento della consegna della fiat 126 il sabato precedente la strage, alla vicenda dell’incontro tra Paolo Borsellino e Bruno Contrada che gli rivelò di essere a conoscenza del fatto che stava interrogando Gaspare Mutolo, ed ancora all’anomalo e patologico coinvolgimento del SISDE nella prima fase delle indagini sulla strage.
Il tempo a disposizione non mi permette di affrontare questi temi, ma queste ultime considerazioni dei giudici nisseni mi inducono a chiudere il mio intervento con l’auspicio che prima o poi, ma forse sarebbe meglio dire prima che sia troppo tardi, nuove fonti di prova consentano di dare una risposta a questi interrogativi.
Ritengo, in conclusione, che si debba convenire sul fatto che per commemorare degnamente Paolo Borsellino è necessario prendere atto della complessità delle vicende esistenziali che ne hanno caratterizzato la vita professionale, non dimenticando mai che ha sacrificato la propria vita in difesa di uno Stato che soltanto dopo la sua morte lo ha veramente compreso ed apprezzato.
Se saremo consapevoli di ciò e se non rinunzieremo mai ad accertare le verità nascoste che ne hanno determinato la prematura scomparsa, allora sarà possibile dare un senso al Suo sacrificio e fare tesoro del Suo insegnamento.
Vi ringrazio per l’attenzione
Palermo 19.07. 2021
Sergio Lari
già Procuratore Generale presso la Corte d’Appello di Caltanissetta